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Elsa Peretti, l’artista del gioiello

Ogni artista può diventare designer, ma non tutti i designer nascono artisti. Una nuova linea può innovare uno stile per qualche stagione, o per qualche anno, ma quando il design diventa arte, quello stile lo cambierà per sempre. E fu così che, cinquant’anni fa, Elsa Peretti mutò il futuro della gioielleria.

Quando il 24 settembre del 1974 le sue collezioni debuttarono nel negozio newyorkese di Tiffany &Co., oltre duemila persone contribuirono al sold-out di tutti i modelli: per la prima volta, l’uso dell’argento e di morbide forme organiche entrò a pieno titolo in un mondo fatto d’oro, gemme preziose e linee decisamente più tradizionali. Per farlo, Elsa aveva unito le arti della scultura e della gioielleria a lungo approfondite, ma anche un’educazione al bello coltivata in Italia fin da piccola.

Borghese romana, classe 1940, figlia di Nando Peretti (fondatore dell’Anonima Petroli Italiana), a 21 anni lasciando casa e una vita di sicuro privilegiodiventò modella e interior designer. In Spagna studiò scultura con Xavier Corberó e disegnando gioielli diventò la musa dello stilista Halston e di Andy Warhol.

Nel 2000, una nuova svolta: dette vita alla Fondazione Nando ed Elsa Peretti, dedicata alla salvaguardia dell’ambiente e dei diritti umani. Parliamo di lei con Stefano Palumbo, membro del board della stessa Fondazione, che con Elsa Peretti trascorse 20 anni di lavoro fino alla sua scomparsa, nel 2021.

Come vi siete conosciuti?

A Porto Ercole, nel 1999. Lei aveva già l’idea della Fondazione, io ero giornalista e lavoravo ai primi progetti charity europei. A sessant’anni Elsa poteva iniziare a rilassarsi: invece decise di buttarsi a capofitto in questo progetto, occupandosi intanto di Tiffany. Partimmo subito per uno dei primi grandi summit sulla conservazione dell’ambiente, ad Amman.

La sua consacrazione con Tiffany, nel 1974, aveva radici profonde. Com’è evoluta la sua figura di donna e artista?

Elsa s’inserì nel mondo della gioielleria con una maturità artistica definita da anni nella lavorazione dei metalli: realizzò i suoi primi prototipi a Barcellona alla fine degli anni ’60 sotto la guida dello scultore Xavier Corberò, di cui si innamorò. Fu la scultura a dare origine al suo design di gioielli e oggetti. Questa disciplina, intrisa di mille riferimenti artistici, le donò una visione diversa per creare qualcosa di totalmente nuovo. Così innovativo che ancora oggi, oserei dire, non è stato superato nel design del gioiello.

Ma Elsa era già affermata: aveva lavorato per lo stilista Giorgio di Sant’Angelo e per Halston, destinato a portare nel mondo la moda americana, proprio lui la presentò a Tiffany. Aveva un suo corner da Bloomingdale’s chiamato Cul de Sac. Inserita nel movimento liberale catalano intellettuale Gauche Divine, divenne protagonista dell’atmosfera culturale che lanciò New York come capitale dell’arte, fra gli anni ’70 e ’80.

Henry B. Platt, al tempo amministratore delegato della Maison, fu un visionario: qualcosa doveva cambiare e puntò su di lei, pur sapendo quanto potesse essere difficile stravolgere uno stile ancora fatto di “oro e brillanti”. Se prima di lei l’argento non esisteva, Peretti usò però anche altri materiali non considerati. Scolpiva la giada per renderla fluida, creò monili in legno e lacca lavorati in Giappone con tecniche antiche e difficilissime che li rendevano preziosi quanto l’oro. Impostò la comunicazione, inclusa la storica collaborazione con il fotografo Hiro, durata quasi 50 anni: prendere un osso, infilarci un bracciale, decorarlo con una coccinella e metterlo sul New York Times, nel 1974, non era un gesto scontato.

Il noto illustratore Joe Eula ripeteva spesso un concetto semplice: lo stile che aveva Elsa – un paio di pantaloni e una camicia – influenzò Halston nel suo percorso artistico. Questo stile, così definito e diverso per l’epoca, diede un segnale chiaro all’universo della moda. Lei lo incarnò creando gioielli (e in seguito oggetti di design) nati da una concreta praticità, trasformandoli poi in opere d’arte.

Con il suo passato di modella aveva una forte consapevolezza del corpo femminile, per questo disegnò solo creazioni che potessero dialogare con la donna, seguendone la femminilità. Senza questo ideale non sarebbe mai nata una collezione come quella dei bracciali Bone. “Devi mettere un po’ d’argento!” soleva dire Halston a Liza Minnelli, che iniziò a indossare almeno un gioiello Peretti in quasi ogni occasione, pubblica o privata.

Dichiarò che il suo impegno verso il villaggio di Sant Martí Vell, oggi simbolo della Fondazione, fosse per lei forte quasi quanto quello per Tiffany. Che significato aveva per lei quel luogo?

Peretti era già in Spagna nel 1966, quando Salvador Dalì la volle come modella a Barcellona, dove la vestì da suora. Diventò amica dell’architetto Ricardo Bofill, dei fotografi Oriol Maspons, Leopoldo Pomés e Colita, come di molti altri artisti e galleristi. Nel 1968 Elsa scoprì quel villaggio ormai in rovina e se ne innamorò, iniziando pian piano a restaurarlo e acquistando diverse case (che oggi ospitano la collezione personale di Elsa Peretti con i suoi pezzi di artigianato indigeno, gioielli Art Déco e oggetti d’arte, ndr).

Come si arrivò alla Fondazione?

Elsa aveva una mentalità ecologica spontanea, affinata da anni di letture, viaggi e incontri con diverse tradizioni e popolazioni indigene. Dopo decenni in cui aveva sperimentato un profondo legame con la natura a Sant Martí Vell creò una Fondazione di beneficenza dedicata al padre, l’imprenditore Nando Peretti: il suo esempio di integra generosità la influenzò molto come donna e filantropa. Lui, l’uomo più importante della sua vita, non aveva accettato la sua “fuga” da casa a 21 anni,ma quando ne lesse i successi sulla copertina di Newsweek nel 1977 ne fu orgoglioso e il loro rapporto tornò forte. Negli anni la Fondazione ha erogato aiuti in Europa e Africa, con progetti umanitari e di salvaguardia dell’ambiente. Era il suo amore, ogni giorno valutava i rischi di ogni iniziativa, gli impatti e i risultati, dividendosi fra New York e la Spagna.

Com’era la sua relazione con il design e la creatività?

Indossava spesso coppie di bracciali Bone, spiegando: “Sono alta e devo metterne sempre due, per bilanciare!”. Era una relazione che prese vita lentamente. E fu il segreto del suo successo. Pretendeva molto da sé stessa, una ricerca ossessiva della perfezione che la portava a ripetere “l’estetica mi uccide”.

Sentiva tutto con un’intensità non comune, di cui sono prova gli interni delle sue case e il design dei gioielli Tiffany & Co. che rivedeva incessantemente per trovarne l’essenza, dicendo: “Continuo a lavorare, pensare, finché non riesco a cristallizzare la forma. Il grande design non richiede sforzo per guardarlo. Non bisogna essere spinti a guardare un oggetto per il suo nome, ma per puro piacere”.

Courtesy Tiffany & Co.

Virginia Ricci
September 15, 2024