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Il sale di una vita
Ribelle nei sogni e irriducibile sostenitrice della libertà. Insegnante di francese, modella, musa dei grandi – da Dalí a Helmut Newton – e poi creatrice dei talismani della nuova eleganza. Da Roma a New York, fino al suo rifugio spagnolo, Casa Pequeña, Elsa Peretti ha unito in una sola, ineguagliabile trama, arte e audacia, genio e stile.
Se non sei nata regina, regina di libertà prima che di cuori, le favole non le riscrivi. E delle favole più classiche, quelle che hanno sfaccettato il diamante dei nostri sogni, Elsa Peretti ha riscritto tutto, principesse, gioielli, castelli, principi azzurri, creature fantastiche, non draghi, ma serpenti e scorpioni da appoggiare morbidi sul collo. Cinquant’anni fa, nel 1974 in una giornata d’autunno come queste, a New York iniziava una delle fiabe più straordinarie e longeve nella storia del design, della bellezza e dell’emancipazione femminile, e i protagonisti erano Elsa Peretti, la maison di gioielleria americana Tiffany & Co., e una fila lunghissima di donne che da allora, varcando l’ingresso dello storico negozio sulla Fifth Avenue, hanno acquistato i talismani della nuova eleganza. In poche ore l’intera collezione andò, parole magiche, sold out. La prima volta di oltre trenta collezioni, un successo dopo l’altro, ancora oggi che la regina Elsa non c’è più, scomparsa tre anni fa come solo le sovrane sanno fare, durante il sonno nel tepore pomeridiano che avvolgeva la sua reggia spagnola, nell’antico villaggio di Sant Martí Vell a pochi chilometri da Barcellona. Ed è proprio nella fiabesca Sant Martí Vell, tra campagne e boschi, nel buio degli alberi quasi perdendo la strada, che possiamo raccontare la vita di questa donna straordinaria e rivoluzionaria. Una donna che ha riscritto prima di tutto la vita che altri avevano deciso per lei fin da bambina. Entriamo dunque nella sua casa, sediamoci intorno a un tavolo-macina di mulino, pietra immensa che, un giorno o forse era notte, Elsa Peretti e la sua amica Liza Minnelli avevano cercato di spostare ridendo come pazze, guardiamo alle pareti le celebri fotografie di Hiro che hanno reinventato i gioielli di Elsa, e siamo pronti. C’era una volta Elsa…
Elsa Peretti nasce il 1° maggio 1940, a Firenze. Il padre è Nando Peretti, fondatore dell’Anonima Petroli Italiana, l’Api, quella del Carosello anni Sessanta, quando Domenico Modugno cantava “con Api si vola” e Giacomo Agostini sfrecciava sulla sua moto, campione del mondo. Negli stessi anni, precisamente nel 1961, compiuta allora la maggiore età, Elsa, scuole a Roma e in Svizzera, portamento regale e un matrimonio importante nel destino, scappa da casa. Saggiamente e dolorosamente, con quell’amore per il padre che non verrà mai meno, Elsa scrive una lettera: “Caro papà, spero che questa mia vi arrivi prima di sera, non vorrei che steste in ansia temendo un incidente o guai simili. Dunque papà, sono maggiorenne e libera, almeno secondo la legge, dei miei atti; ho deciso di vivere una mia vita, di lavorare per mantenermi e di affrontare le mie esperienze buone e cattive che siano con le mie sole forze, solo così potrò imparare, spero, a essere una donna”. Colpisce l’articolo indeterminato, una vita, più discreto e accogliente del classico “la”, e potremmo già intuire in quelle tre lettere lo stile dei gioielli di Elsa Peretti, niente spigoli, ma onde d’argento per sottolineare la naturalezza del corpo e delle idee che indossa. D’argento, appunto, altra rivoluzione: meno costoso, essenziale, moderno, controcorrente perché in epoca femminista le nuove regine i gioielli se li comprano anche da sole.
La reazione del padre alla lettura della missiva è prevedibile, italianamente feroce, il classico taglio degli alimenti, ma Elsa non cede, cammina dritta con il suo corpo altissimo, magrissimo, e sorride. Lo farà anche da modella, e sarà l’unica, come notava il pubblico intorno alle passerelle di Manhattan. Unica anche perché bruna, capelli corti nell’America bionda e occhi azzurri. Come dire, la prima forma di stile è l’indipendenza. La prima tappa della fuga invece è Gstaad, dove Elsa insegna sci e francese, poi si sposta a Milano, studia design con Dado Torrigiani, quindi è a Barcellona, «e siamo alla fine degli anni Sessanta quando la città catalana è il regno della Gauche Divine, il movimento culturale d’avanguardia antifranchista, e qui Elsa conosce personaggi come Ricardo Bofill, architetto, Colita, fotografa militante che lancerà la sua carriera di modella, e ancora Oriol Maspons, altro fotografo che la ritrae in Paco Rabanne insieme a Salvador Dalí e, nel 1966, eccola lì Elsa, a Port Lligat, che posa vestita da suora per il maestro del Surrealismo», racconta Stefano Palumbo, uomo prezioso, per venticinque anni braccio destro di Elsa Peretti e oggi Member of the Board for The Nando and Elsa Peretti Foundation. Magari diamo qualche cifra: dalla sua nascita nel Duemila la Fondazione di Elsa, dedicata alla memoria del padre, ha sostenuto più di milleduecento progetti no profit in ottantatré Paesi, per una cifra che si aggira intorno ai 75 milioni di euro.
Bisogna aspettare il 1977, tuttavia, perché padre e figlia, re e principessa in esilio, ma già regina nel suo regno, tornino a parlarsi. A riportare pace è Newsweek, numero del 4 aprile, titolo in copertina Jewelry’s New Dazzle, e la nuova luce di cui racconta il settimanale è quella dei gioielli disegnati da Elsa, “la più incredibile rivoluzione dal Rinascimento”. A soli tre anni dall’inizio della collaborazione esclusiva con Tiffany & Co., Elsa ha già creato gli emblemi leggendari della sua ricerca, il pendente Bottle, la piccola giara dove conservare freschissima una gardenia, la serie Teardrop, i delicatissimi Diamonds by the Yard, e ancora la serie Bean, anche in formato portapillole e pochette, e poi i leggerissimi Open Heart, ispirati alle sculture aperte di Henry Moore, e da li a poco sarebbero arrivate le meraviglie in maglia d’argento, sciarpe, orecchini, reggiseno, e ancora i bracciali Bone. Mai emblema di morte è stato più bello, canto coraggioso alla vita perché continui oltre la fine. L’ispirazione? Un’infanzia romana e cattolica, quando Elsa contemplava in chiesa le ossa dei santi, magari rubava una tibia, un femore, e orgogliosa dei rimproveri materni riportava, scortata dalla nanny, la reliquia sul luogo del furto.
L’articolo di Newsweek era interessante anche per questo, perché del “genio Peretti” tracciava la genesi, dalle fotografie di lei bambina al passaggio in Spagna, dall’arrivo nel 1969 come modella a New York, pare con un occhio nero perché il fidanzato di allora non aveva gradito l’addio, all’incontro con lo stilista Giorgio di Sant’Angelo – per lui Elsa crea le famose Bottle – fino al sodalizio con Halston. Spetta a lui presentare Elsa a Tiffany & Co. ed è nell’ex casa di Halston, allora casa Peretti, che Elsa dopo una notte insieme a Helmut Newton, alle undici di mattina con il sole che trasforma i grattacieli nella scenografia newyorkese di Metropolis, viene ritratta in abito Playboy, guêpière, calze a rete e caschetto da coniglietta in velluto nero. Entra in scena un altro uomo, Victor Hugo, vetrinista e amante di Halston, che comprerà centinaia di copie di Newsweek e le spargerà nelle vetrine della boutique dello stesso Halston su Madison Avenue. Hommage à trois. Sono ritmi velocissimi, quelli di New York negli anni del dominio della Factory di Andy Warhol e della sua versione danzante, lo Studio 54. Poi arriva la pandemia, l’Aids, lutti terribili, ed Elsa ripensa a quel villaggio che l’amica Colita le aveva fatto scoprire, Sant Martí Vell, e dove con i guadagni da modella agli esordi aveva acquistato la prima casa, Casa Pequeña, allora senza acqua né luce, scorpioni tanti, anche serpenti, e in una fotografia di Colita Elsa ne tiene uno tra le dita. Forse l’idea del celebre collier stava già nascendo. Nel tempo il restauro di questo piccolo regno di favola fiorisce insieme all’amore per i grandi interpreti dell’arte e dell’artigianato, forse la vera famiglia di Elsa a cui rimarrà sempre fedele. I primi sono spagnoli, Xavier Corberó, scultore che insegnerà a Elsa a lavorare i metalli, quindi Vincent Abad, poi arriveranno maestri italiani, giapponesi, altri di Hong Kong. Ancora oggi nello studio di Elsa ci sono i disegni, gli appunti, i ritagli che hanno ispirato il suo lavoro. A parete molti sono trafitti da un aculeo di istrice. Una puntura crudele, dolorosa per ricordare che la libertà si paga, soprattutto al femminile. Del resto l’anagramma di Elsa è “sale”. E il sale parla di sudore, fatica, impegno durissimo, ed Elsa era una perfezionista. Poi certo il sale è nelle lacrime, prima che diventino gioielli. Ma c’è anche il sale della vita, il senso, la follia, la gioia, l’imprevedibile di ogni genio. E forse quei cristalli di sale sono davvero i diamanti delle regine.
Laura Leonelli
November 25, 2024